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MANPOWER

Foto ©Pete Pattison


Ho scritto questo pezzo, uscito su Planetmountain, nel settembre del 2004, ben 18 anni fa. Nulla è cambiato. La ricchezza degli emirati arabi continua a basarsi sullo sfruttamento del petrolio e, parallelamente, dei lavoratori più poveri del mondo.

I prossimi mondiali in Qatar nascono esattamente dalle stesse radici: fatica e morte di lavoratori schiavi.

Ovviamente la FIFA se ne frega totalmente - lo sportwashing è la nuova disciplina - e tutto il mondo sarà davanti agli schermi, pur consapevole che lo spettacolo offerto poggia sui corpi massacrati dei nuovi (?) schiavi. L'importante è divertirsi. Buon mondiale, gente.


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Manpower. Energia umana. Manpower: com’è americano, come suona importante. Detto così sembra il nome di qualche bevanda eccitante per candidati allo schianto festivo post-disco. Qui a Kathmandu questo termine ha un altro significato. Manpower in effetti vuol dire sì energia umana, ma l’energia è quella di chi va a faticare nei paesi arabi, a pulire i cessi dei grandi hotel, ad asfaltare le strade, a guidare i mezzi pesanti, a fare lo sguattero nei ristoranti per i ricchi principi del petrolio. Sono centinaia i giovani nepalesi che lasciano ogni giorno i loro villaggi di montagna, dove sono perseguitati alternativamente dai maoisti e dall’esercito, per il Kuwait, l’Arabia, il Qatar, il Dubai. Qualcuno poi arriva là e scopre che la sua agenzia – la sua manpower agency - in realtà li ha “passati” ad un’altra agenzia che li spedisce, guarda un po’, in Iraq. Ed in Iraq, oltre a spaccarsi la schiena di lavoro per le Forze del Bene, in cambio di tre-quattrocento, al massimo cinquecento dollari ameri


cani al mese, si crepa. Nell’indifferenza totale del mondo, troppo impegnato ad indignarsi e addolorarsi per i morti di serie A, per avere tempo da perdere con quelli di serie B. Il dolore è per tutte le vittime, su questo non c’è dubbio, ma qui al dolore si aggiunge la pietà per un’umanità semplice, in cerca – come da sempre accade a chi emigra – solo di migliori condizioni di vita per sé e per la propria famiglia. Questa “energia umana”, nella morte come nella vita, rimane invisibile. O meglio, visibile in differita, quando ormai è tardi. Dodici morti, dodici ombre.

Una storia edificante per tutte. Krishna Bahadur Khadka, rientrato per miracolo dal Kuwait, racconta: “I miei “contractors” indiani (intermediari fra l’agenzia nepalese e la società kuwaitiana che assume) mi avrebbero ucciso se mi avessero trovato la notte che ho rifiutato di andare in Iraq.” L’agenzia – una delle tante non autorizzate che gestiscono questo turpe caporalato “global”– in accordo con un’ agenzia di Kathmandu, aveva mandato il povero Khadka in Kuwait, con l


a promessa di farlo lavorare lì come camionista. Una volta in Kuwait Khadka si ritrova invece destinato per dieci giorni all’Iraq assieme ad altri centoventi (!) disperati. Il giovane nepalese ha paura, non vuole andare, ma alla fine accetta, anche perché il rifiuto, gli dicono chiaro e tondo i suoi “padroni”, vuol dire tornare subito in Nepal: “Non volevo andare, ma loro mi offrivano 175.000 rupie (circa 2.300 dollari americani, 230 dollari al giorno…) e uno a lavorare in Kuwait non guadagna nemmeno la metà di quella cifra. Così ho firmato”, dice Khadka, che aveva già “investito” 120.000 rupie (circa 1.600 dollari) come pagamento al suo agente in Nepal. Come continua la storia ? Dopo il massacro dei dodici connazionali, Kahdka ha paura, assieme a quarantasette compagni nepalesi decide di non partire più, ma i suoi padroni la pensano diversamente. Il nepalese scappa, nascondendosi nelle discariche, braccato dai “contractors” – altra bella parola americana per dei volgari aguzzini - indiani che lo minacciano con bottiglie di soda caustica. La svolta, finalmente, dopo un fax inviato miracolosamente all’ambasciata nepalese in Arabia Saudita e l’aiuto provvidenziale di un connazionale stabilitosi in Kuwait, che riesce a farlo rientrare a Kathmandu. “Ma io sono il solo che è riuscito a rientrare dei quarantasette”, spiega Khadka. E spiega anche che sono migliaia i nepalesi che lavorano in Iraq e che ci muoiono senza che nessuno ne sappia nulla.



Non tutte le agenzie, ovviamente, sono fatte da persone senza scrupoli. Qualcuno di questi uomini ce la fa davvero a sistemarsi decentemente, a mandare soldi a casa, ma per lo più qui in Nepal manpower significa sangue, sudore e lacrime.

Il 1° settembre tutto questo è esploso con una violenza inaspettata. Non c’entrano i maoisti, per una volta, ma la gente normale, i nepalesi. Anche se poi il peggio viene da sé ed alcuni esagitati trasformano una manifestazione di dolore in devastazione dissennata e stupida, come ogni violenza. Anche se un governo inetto riesce come unica misura a restare a guardare e ad imporre un coprifuoco a disastro avvenuto.

Il 1° settembre 2004 per i nepalesi è ormai diventato una specie di 11 settembre. “Brandelli dell’11 settembre colpiscono il Nepal il 1° settembre” titola il Kathmandu Post, mentre il giornalista spiega che dopo l’11 settembre 2001 “la possibilità di attacchi americani all’Afghanistan, persino alla Corea del Nord, all’Iran, all’Iraq erano stati visti come possibili. Ma nemmeno lontanamente avremmo pensato che il Nepal avrebbe potuto un giorno essere colpito così profon


damente”. E continua: “Se gli americani non avessero “liberato” ed occupato l’Iraq, i nostri poveri connazionali non si sarebbero trovati in Iraq a servire gli americani per il prezioso malloppo offerto in cambio. E le brigate Ansar al-Sunnah non li avrebbero sequestrati e brutalmente massacrati. Né ci sarebbe stato il disastro del 1° settembre qui in Kathmandu. Il 1° settembre ha mostrato impietosamente come i nostri problemi abbiano sviluppato connessioni globali”. Mai constatazione, purtroppo per il Nepal, appare più vera di questa. E per la prima volta nella sua storia recente, il Nepal assiste ad una manifestazione di intolleranza religiosa. In un editoriale apparso sullo stesso Kathmandu Post, un giornalista commenta gli incidenti avvenuti. Alcune osservazioni potrebbero sembrare ingenue ad un lettore occidentale che non conosce il Nepal, ma lo stupore quasi doloroso che si coglie nell’articolo rispecchia perfettamente la mentalità pacifica e tollerante della gente di qui: ”Mentre le devastazioni alle agenzie fornitrici di manpower, seppur assolutamente condannabili, possono almeno essere giustificabili c


on la rabbia ed il dolore intollerabile per l’uccisione dei nostri connazionali, l’assalto alla moschea Jame Masjid di Kathmandu è stato qualcosa di assolutamente senza senso. La cosa più strana poi è stata notare che la maggior parte dei manifestanti conivolti nell’attacco alla moschea era molto giovane. I più anziani, da cui ci si aspetterebbe maggiore rigidità, si sono dimostrati alla fine i più tolleranti e comprensivi. Come hanno potuto questi giovani accumulare un tale odio, come hanno potuto dimenticare le tante lezioni di tolleranza e fratellanza di un paese pacifico come il Nepal? Questi ragazzi sono intelligenti, aggiornati, conoscono quale fragile faccia il Nepal presenti al mondo. Eppure non ci pensano due volte a decidere di infliggere altri danni, altre rovine. E’ sicuramente inutile ed idealistico sognare la fine di questo pessimismo distruttivo che permea quasi tutto intorno a noi. E non è certo la prima volta che il disastro colpisce il Nepal, ma vorremmo ch


e ciò che è accaduto in Iraq diventasse almeno un ricordo indelebile, soprattutto per i più indifferenti di noi, anziché suscitare odi e distruzioni.”

Piove suol bagnato, verrebbe da dire. In un paese tra i più poveri del mondo, con enormi problemi di disoccupazione, di salute pubblica, d’ istruzione, di diritti civili delle minoranze e delle donne, di sfruttamento dell’infanzia, in un paese già duramente provato da una guerra civile di cui nulla o poco trapela all’estero, in cui i maoisti riescono a isolare una città come Kathmandu per un’intera settimana, con conseguenze sulla popolazione facilmente immaginabili. In un paese in queste condizioni, l’uccisione dei dodici poveri lavoratori ed i conseguenti gravi incidenti seguiti da lunghe giornate di coprifuoco, non potevano che aggiungere disastro a disastro.

Compagnie aeree che sospendono i voli, hotel chiusi e cancellazioni di turisti da tutto il mondo. Già, i turisti. In Nepal il turismo è in crisi da tempo. Avevamo già riferito in precedenza qui su Planetmountain, della situazione delle passate stagioni, non certo brillanti. Aggirarsi in questi giorni per Kathmandu, anche ora che i voli sono ripresi e che la situazione è tornata alla normalità, con tutto il caos e l’inquinamento abituale, è quasi deprimente. Pochissimi turisti in giro a Thamel, nei ristoranti, negli hotel, dove decine di persone di staff si prodigano attorno a pochi inarrestabili viaggiatori. Anche gli amici locali con cui parlo mi confermano l’andamento fiacchissimo


della stagione. Per la verità, a parte ovviamente i due-tre giorni degli incidenti, non è le cose che siano cambiate. L’atmosfera è la stessa: non ti senti né in maggiore pericolo, né possibile bersaglio di attentati o di particolari odi. Non è mai stato così e non lo è ora. Il popolo nepalese – e chi è stato qui sa che non si tratta di uno stereotipo - è un popolo gentile, tollerante, generoso che chiede solamente di poter vivere del proprio lavoro. Ed il turismo è (sarebbe) il loro principale lavoro. Qualche spedizione è già arrivata ed altre stanno per farlo, anche se la preoccupazione per i maoisti spinge molte di queste a scegliere montagne tibetane come Shisha Pangma e Cho Oyu o assolutamente sicure come quelle nella Valle del Khumbu. Per il grosso dei trekking – se ci sarà un “grosso”-bisognerà aspettare invece i primi di ottobre, quando la stagione entrerà nel vivo.


Anni ed anni di stagnazione ed assenza totale di una seria programmazione economica da parte di tutti i governi che si sono succeduti, una burocra


zia corrotta che si autoalimenta per non perdere i propri privilegi (solo per fare un esempio, la Royal Nepal Army ha chiesto lo stanziamento di 11 miliardi di rupie (!) per nuove spese militari) ed un re indifferente, hanno fatto del Nepal un paese che naviga a vista. Se aggiungiamo i maoisti, che sono la priorità assoluta, per non dire esclusiva, della fiacca attività del governo, con le loro schizofreniche strategie, di cui è la popolazione a farne maggiormente le spese, il quadro è quello di una palude stagnante, di una trappola.

I giovani che hanno devastato Kathmandu il 1° settembre, probabilmente sentono con rabbia che la trappola non dà loro possibilità, che li tiene in una gabbia le cui uniche drammatiche uscite sono il duro lavoro all’estero o l’improvvisazione nel loro paese. Mai come in questo piovoso autunno il paese sembra veramente ad un punto di non ritorno. Commenti, discorsi, sensazioni convergono su questa idea. Ora il Nepal, i nepalesi hanno veramente bisogno di un segnale di attenzione concreto da parte del mondo, di quel mondo che da cinquant’anni gode delle sue montagne, delle sue valli, della sua ospitalità. Un’attenzione che non si accenda solo in occasione di eventi luttuosi o violenti, ma che possa essere costante e solidale. Un aiuto per uscire da questa impasse che li sta facendo regredire sempre più. Un sogno ? Può darsi, ma parafrasando e chiedendo perdono a Pablo Neruda per l’estrema sintesi, muore lentamente colui che non sogna.


Manuel Lugli




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