
Mario Merelli
“La sua prima volta all’Everest fu d’autunno, nel 1999, con un solo compagno e nessun’altra spedizione sulla montagna: impresa sovrumana. Lo conobbi allora. Vennero quasi sepolti dalla neve già al campo base e furono costretti ad una fuga precipitosa, con abbandono totale di materiale, per non rimanere bloccati a Rongbuk. Da allora è passato un sacco di neve sulle cime e Mario è diventato uno degli himalaysti più attivi e conosciuti degli ultimi anni, passando attraverso una collaborazione felice con Gnaro Mondinelli, fino alla dura esperienza dell’Annapurna nel 2005. Quando non è in Himalaya, si rintana in fondo alla Val Lizzola, intestino cieco della montagna bergamasca più genuina. Ricorda nel fisico un troll norvegese, robusto e dai lineamenti marcati, ma dai modi gentili. A Kathmandu, la sera, è sempre in baracca, come si dice da noi in Emilia. Del resto Mario ha un talento naturale nel farsi amici.”
Questo il ritratto che avevo fatto di Mario Merelli qualche anno fa e nonostante non ci vedessimo più molto spesso, penso rimanga sempre attuale. Mario era davvero un troll gentile. Una di quelle persone di cui fatichi davvero a immaginare doppi fondi o scomparti segreti, tanta era la sua immediatezza di pensiero e parola. Guardatevi l’intervista fatta alla Piramide del CNR di Lobuche dopo la salita del Lhotse: è il racconto bello e umano di un non-eroe, di un alpinista forte ma che conosce la bellezza della compagnia, della condivisione e la rimpiange quando questa non c’è. Un alpinista che lacrima di freddo e fatica sui pendii ghiacciati e di riconoscenza nel caldo di un lodge, senza vergognarsi delle emozioni che saldano pezzi importanti della propria vita.
Non era un superman Mario, nonostante i suoi undici ottomila. Tra una spedizione e l’altra, lavorava al meublé di famiglia nella sua val Lizzola come un uomo qualsiasi. Certo la sua carriera di himalaysta aveva raggiunto un livello alto, ma le sue radici di uomo della montagna bergamasca erano intatte. Forse anche per questo, per questo suo essere uomo montagnoso in ogni sua fibra, gli sherpa d’alta quota lo vedevano come uno di loro, un alpine sherpa. Perché questi sentimenti, quasi animali, si avvertono al di là di ogni differenza di razza e cultura, a dispetto di ogni difficoltà linguistica.
Anche la sua caduta, proprio nel cuore delle sue montagne, è un tragico simbolo della della sua profonda appartenenza, un suggello terribile che si compie per Mario come accaduto per molti grandi alpinisti prima di lui: Loretan, Berhault, De Marchi.
Un lama direbbe che gli dei delle montagne hanno voluto così: laghyelo, hanno vinto gli dei.
E forse il fatalismo tibetano sintetizza meglio di ogni altra espressione aspirazioni, fatica, dolore, successi, fracassi, vita e morte degli uomini di montagna. Ed allora saluto Mario con il classico Namasté, saluto il divino che è in lui, quella scintilla che, qualsiasi religione si abbia o non si abbia, fa alzare la testa e vivere in pieno la propria vita.