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La Sicilia sulle Alpi

Il 23 maggio di 20 anni fa, alle 17.58, Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo vengono massacrati dall’esplosione di 500 chilogrammi di tritolo. Giovanni Brusca aziona materialmente il telecomando, Totò Riina aziona materialmente Brusca mentre politici e alte sfere dei servizi segreti deviati – ma esistono servizi segreti non deviati in Italia ? - si muovono assieme a questi per stroncare l’azione fortissima e straordinaria di Falcone, Borsellino che con il supporto di pochi altri magistrati (Caponnetto, Ingroia, Ayala) avevano iniziato a stringere la mafia in una morsa durissima, col maxiprocesso del 1987 (360 condanne per 2665 anni complessivi di carcere) e con il 41 bis, il carcere duro per i mafiosi. E’ questo il momento degli accordi ignobili fra stato e mafia per convivere, per fare in modo che la mafia conservi il proprio potere ed i politici pure, ai loro rispettivi livelli. Potere e voti, lo scambio di sempre.

Accordi sempre negati da tutte le più alte istituzioni dello stato, ma su cui a distanza di vent’anni, grazie anche alle testimonianze dei collaboratori di giustizia, sembrano davvero esserci pochi dubbi.

I giorni, le settimane successive alla strage furono giorni di manifestazioni, poche a dire il vero, ma soprattutto di riunioni con gli amici della Rete, il movimento fondato da Leoluca Orlando, Nando dalla Chiesa, Claudio Fava e altri esponenti politici. Ci furono tanti incontri: Orlando, Caponnetto, Fava. Furono giorni in cui davvero sembrò che l’Italia si fosse scossa, che qualcosa dovesse davvero cambiare. Tangentopoli era nel pieno della sua esplosione e nella straniante tragicità di quel periodo c’era una specie di attesa febbrile di un vero cambiamento.

 

Il 19 luglio 1992, sto discendendo con un amico il ghiacciaio del Lys, dopo una salita al Monte Rosa.  Arrivati alla stazione della funivia di Punta Indren per discendere ad Alagna, veniamo a sapere che c’è stato un gravissimo attentato a Palermo, una bomba esplosa in città. Adriano mi dice: “Vedrai che è Borsellino, il giudice amico di Falcone”. Ha ragione: Paolo Borsellino e gli agenti di scorta Emanuela Loi , Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina sono stati spazzati via come poveri fantocci da 100 chili di tritolo piazzati su una 126 parcheggiata davanti a casa della madre del giudice. Una macchina che, come le altre non avrebbe dovuto essere lì.

Mi guardo intorno, allungo lo sguardo sulle Alpi che mi circondano, penso alla Sicilia, così lontana ma che in quel momento riesce a proiettare la sua ombra terribile fin qui, sulla neve azzurra del Monte Rosa. Penso alla futilità del mio, nostro agire quotidiano, incentrato sulle piccole, personali cose della vita e quasi invido la forza visionaria e collettiva degli uomini come Falcone e Borsellino. Guardo lontano, oltre confine e mi dolgo di vivere in un paese tanto bello quanto di-sperante, nel senso che non ha più speranza.

Al ritorno a casa, guardando sui quotidiani del giorno dopo la famosa foto di Falcone e Borsellino insieme, piango.  Non l’ho mai fatto prima e non lo rifarò mai più in seguito. Piango quei due uomini coraggiosi, integerrimi, con vero senso dello stato. Li piango come se li avessi conosciuti, come se ne avessi condiviso le sofferenze, le rabbie, l’impotenza, la solitudine, la paura. Perché per entrambi la paura era vera, concreta, ma affiancata dal coraggio, quel coraggio che differenzia gli uomini normali dagli eroi.    “Beato quel paese che non ha bisogno di eroi”, dice Brecht. In questo caso non sono d’accordo. L’Italia avrebbe, anche ora, un bisogno disperato di eroi come Falcone e Borsellino che fanno del senso del dovere, dell’onestà, della coerenza le loro vere bandiere, non un insulso gagliardetto colorato da sventolare durante le partite di calcio. 

Da anni la foto di Falcone e Borsellino è appesa alle mie spalle nel mio ufficio. Ho traslocato diverse volte, ma la loro foto è sempre tornata alle mie spalle. Per ricordarmi, ogni volta che qualcosa mi sembra sbagliato, deprimente, insopportabile della mia vita in questo paese, che non bisogna perdere il coraggio. Giovanni e Paolo sono i miei martiri laici, sempre più consapevoli, mentre portano avanti le loro azioni ed il loro pensiero, del loro destino ma determinati a proseguire per un’idea superiore di giustizia e pace.

Meno santi da calendario e più Falcone e Borsellino forse avrebbero potuto davvero cambiare qualcosa.  Purtroppo non è stato così.

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