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L'informazione scomparsa

Di tutto questo periodo terribile, oltre alle ondivaghe decisioni dei governi europei, al prolungato isolamento forzato, allo sforzo immane e formidabile del personale medico e di tutte le categorie rimaste a lavorare duramente al loro posto e oltre alla preoccupazione – grande - per l’impatto economico sulla vita di tutti, mi ha colpito e mi rimarrà impressa indelebilmente la gestione dell’informazione da parte della grande maggioranza dei media, televisivi e cartacei.

In un’intervista online Francesco Benozzo, filologo professore associato dell’Università di Bologna, definisce il metro della comunicazione giornalistica in maniera molto efficace. Le notizie sull’epidemia “passano per i pornografici bollettini quotidiani di contagiati, ricoverati, guariti e morti”, in cui il termine pornografico esprime bene il duplice concetto di esplicitazione estrema e quasi compiaciuta dell’oggetto di cui si tratta e della sua “oscenità”.

 

L’informazione italiana - e parlo anche d’informazione “seria”, non delle sceneggiate della D’Urso, sicuramente inqualificabili, ma non peggio di tanti titoli di certi giornali - dall’inizio dell’epidemia ha seguito un percorso di discesa sempre più veloce nel maelstrom della paura e del panico. Col diffondersi del virus lo scavo archeologico di buona parte del giornalismo italiano nel terreno della malattia, più che informazione ha messo in scena un teatro greco di virologi narcisi in guerra, politici sciacalli, pseudo-esperti, fake news, teorie complottiste, storie lacrimevoli di eroi e racconti di truffatori e delinquenti veri. 

Anzichè praticare un’informazione seria, d’inchiesta, circostanziata e dai toni adeguati, anche in una situazione così inedita e grave tanta stampa ha preferito l’uso dei soliti espedienti da poco prezzo, la sensazione e la rincorsa ad ascolti, visualizzazioni, letture.

Contemporaneamente abbiamo assistito al progressivo seppellimento, e alla conseguente scomparsa, di quasi tutte le altre notizie. I migranti incastrati fra Grecia e Turchia - che ancora lo sono - quelli che continuano ad affogare nel Mediterraneo, la guerra in Siria, in Libia, le gravi situazioni in Libano e Iraq, i progressivi smantellamenti di democrazia in Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, la sempre più vergognosa dittatura del califfo Erdogan.

L’insistenza ossessiva e inquietante sui “numeri pornografici” del Covid, ha continuato di fatto a relegare in cantina numeri ben più tragici – con tutto il dovuto dolore e rispetto per le vittime di questo virus. Numeri pubblici e certamente noti a tanti addetti, ma non interessanti per il giornalismo, a maggior ragione ai tempi di un’epidemia che tocca per la prima volta, dopo cent’anni, i paesi ricchi. Numeri non interessanti, mai importanti perchè non toccano la centralità e il benessere dei paesi industrializzati.

 

I dati 2016/17 di Oxfam, una delle più attive Onlus “criminali” di salvini, raccontano che l’1% più ricco della popolazione si è accaparrato in un anno l’82% dell’incremento della ricchezza, contro 3,7 miliardi di persone che non hanno beneficiato di nulla. Zero. Sul documento di Oxfam International si legge che «in base ai nuovi dati forniti da Credit Suisse, attualmente 42 persone possiedono la stessa ricchezza dei 3,7 miliardi di persone più poveri».  Questi numeri significano povertà assoluta, lavoro in semi-schiavitù e stenti per decine di milioni di persone e, soprattutto malattie, epidemie (guarda un po’) e morte.

Altrettanto brutali i dati della World Health Organization.

In Africa tra le prime sei cause di morte, a tutte le età, ci sono, in ordine di letalità: infezioni delle basse vie respiratorie (polmoniti), AIDS, dissenterie varie (tifo, colera, etc.), attacchi cardiaci, malaria e tubercolosi. Cinque su sei patologie sono infettive, una persona ogni mille muore di infezioni respiratorie; se si considerano i bambini sotto i cinque anni, la percentuale diventa di quasi tre bambini ogni mille.

Nel solo 2016, per varie patologie, sono morti cinque milioni e seicentomila bambini sotto i 5 anni (quasi quindicimila bambini al mese !), 56% delle morti sono avvenute nei paesi africani.

Nel 2017 la malaria ha registrato 219 milioni di casi, mentre circa un miliardo di persone sono ad alto rischio di contrarla (oltre l’uno per mille di probabilità in un anno).

Ogni anno la meningite batterica colpisce oltre 400 milioni di abitanti della fascia Senegal-Etiopia, con alcune epidemie violente come quella che ha colpito Nigeria e Niger nel 2009, causando oltre ottantamila casi accertati, con mortalità attorno al 10% e conseguenze neurologiche tra il 10% e il 20% dei colpiti.

In totale, ogni anno muoiono nel mondo 10 milioni di persone per malattie infettive; il 92% di questi milioni di morti avviene nelle aree più povere del pianeta e di queste il 47% è provocato da infezioni per le quali non esistono vaccini registrati.

 

Si potrebbe andare avanti per mesi a elencare e studiare queste cifre e quelle relative alle tante infezioni e patologie che colpiscono l’Africa e i paesi cosiddetti “in via di sviluppo”, una via di sviluppo così lunga e tortuosa che in tutti questi anni di post-colonialismo non ha portato da nessuna parte.  Il risultato evidente purtroppo è però uno solo: di queste morti, di questi adulti e bambini che muoiono a migliaia ogni mese, non si cura nessuno. Non hanno impatto su alcuna economia, anzi: per il successo e la prosperità dell’economia dei paesi sviluppati, che dell’Africa sfrutta da sempre le immani risorse, è utile, necessario addirittura che la situazione non cambi.

 

Questi sono invece i dati aggiornati a oggi del Covid-19

https://www.who.int/emergencies/diseases/novel-coronavirus-2019

Casi confermati: 2.034.477

Vittime confermate: 133.837

Paesi affetti: 213

Media generale di vittime per ogni paese colpito: 628,34 (con le ben note differenze da paese a paese)

 

E’ questo pensiero, questi numeri e il loro confronto impietoso a tormentarmi:

centotrentatremila vittime sparse su 213 paesi hanno messo in ginocchio un sistema e catalizzato pensieri, azioni e parole in e di tutto il mondo. Il conseguente lockdown sta piegando l’economia e la vita di tutti noi.

10 milioni di morti all’anno (da decenni) per malattie infettive nelle aree povere della Terra non vengono nemmeno citate come statistica da alcun mezzo di comunicazione – tranne ovviamente i siti specializzati o quelli delle organizzazioni umanitarie.

 

Non cerco risposte ovviamente: tutto il sistema è troppo grande, consolidato e soprattutto condizionato, come sempre, da macro-interessi economico-finanziari inattaccabili, facenti capo alle grandi potenze mondiali. Ma forse qualche analisi in più su questi numeri, dopo il Covid-19, andrebbe fatta. Andrebbe fatta una riflessione sulla nostra “centralità”, sulle nostre debolezze e sui nostri egoismi. Sul perchè c’è ancora chi si domanda i motivi delle grandi migrazioni dai paesi poveri, dove, come si è visto, si muore come le mosche e si sopravvive a stento. Su come abbiamo finora sfruttato e devastato la Terra, incuranti delle conseguenze sugli equilibri ecologici economici e sociali, come se queste, nel nostro giardino delle meraviglie, non dovessero riguardarci mai. Su come, invece, ci siamo scoperti più deboli e vulnerabili di quel che pensavamo. Molto di più.

Abbiamo perso i nostri anziani, le persone deboli e più vulnerabili, i medici e gli infermieri in prima linea, ma anche persone giovani e forti. Fatto tesoro del dolore per queste perdite, questa dovrebbe diventare una lezione di umiltà, un punto di ri-partenza per comprendere la fatica di vivere di tanti nostri simili, in tutto il mondo, soprattutto in certe parti del mondo.

 

In questa fase “di uscita”, stampa, intellettuali e artisti se lo vorranno potranno molto, per certi versi credo più dei tecnici e delle super-commissioni di esperti. Potranno allargare lo sguardo oltre i numeri e offrire visioni più alte del nostro futuro, pensare e proporre modelli diversi di sviluppo e convivenza.  Non vorrei leggere “Tutto tornerà come prima”; vorrei vedere invece “Tutto sarà diverso da prima, saremo meglio di prima”.

C’è un’alta dose di utopia e forse un po’ di retorica nella mia speranza, lo capisco bene. Ma se dobbiamo pensare a una ri-partenza proviamo almeno a farlo volando alto.

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