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Il sonno della ragione

Ci risiamo. Nuove cronache himalayane – o meglio karakorumiche –, vecchie storie. Di “successi”, disfatte, sommersi e salvati. Di gruppi raffazzonati presentati come “expedition teams” che si mangiano la faccia a distanza, tra accuse e difese, offese e repliche. Ma davvero interessa ancora tutto questo ? 

O è solo materiale da gossip da inviare tutt’al più a montagna.tv ? 

Davvero interessa a molti conoscere le cronache di “imprese storiche” sulle vie normali di GI e GII, con portatori d’alta quota – ah questi portatori pakistani che scarsi. Potessi avere il mio solito badante nepalese… – ossigeno e corde fisse terra-aria ?  E che tenerezza il Pompili: una vita che va in giro per campi base, da solo o con le compagnie più varie e raccogliticce per fare numero e ancora si stupisce, si indigna perché un furbetto del campobasino (sempre che sia dimostrato ciò che Pompili riporta nel suo blog) mette insieme una compagnia  varia e raccogliticcia per fare numero ma soprattutto farsi i cazzi suoi sulla montagna.  O perché un Paperone dell’alta quota, nella migliore tradizione “uhei gioietta-io pago-tu lavori”, riversa sui sottoposti le rabbie del suo (ennesimo) insuccesso.  Benedetto ragazzo, l’alpinismo d’alta quota è questo in questi anni da bere: vie normali e blogs pieni di finti eroismi.  Fine. Da noi, con vivida verve emiliana, si dice: le balle stanno in poco posto. 

E del resto non si vede perché non dovrebbe essere così. Non si capisce perché la decadenza etica, morale e culturale che affligge il mondo “esterno” di questi tempi, non dovrebbe coinvolgere anche l’alpinismo e le sue idee.

L’addormentamento generale di ragione e coscienza, provoca solitamente grandi tragedie e talvolta grottesche comiche finali. Questo sta semplicemente avvenendo anche nel mondo della montagna.

 

Poi ci sono gli altri, per fortuna. Pochi, brutti e cattivi. Però ci sono. I Salvaterra e i Sarchi, tanto per non fare nomi. Gente che parte ai primi di giugno, scompare letteralmente dalle cronache pubbliche e private per fare quel che sa fare alla grande: scalare bestie scalcianti come la cresta nord del Latok I. Senza dire un belino a nessuno per tutto il tempo. Niente parabole al base o dirette per farci sapere quanto è cattiva la montagna che non ci fa salire e pararsi il culo per un possibile fallimento. Cinquanta giorni di schiaffoni su difficoltà elevatissime con tempo pessimo, soli, senza cronache marziane né storie strappacuore.  Per tornare a casa e dire semplicemente: gente, è andata male.  Ce l’abbiamo messa tutta, ma abbiamo perso. Pazienza, ci rifaremo la prossima volta.

Sì. Qualcuno c’è ancora.  Ma i racconti di questi uomini e donne si possono godere al rientro, come un tempo. Non con il finto brivido della diretta, non per l’attesa, sotterranea ma sempre morbosamente presente, dell’incidente, come nelle corse in macchina.

I racconti di questi uomini e donne hanno – non sempre ma spesso – la ri-tessitura della meditazione, della rielaborazione. Di attimi, situazioni, paure, facce, gioie, fatiche.  Il calore e l’aroma della decantazione contro l’acidità fredda della cronaca diretta, per fare audience ad ogni costo.

Nostalgico ? Inacidito ? Invecchiato ? Forse, anzi sì, tutte e tre le cose insieme.  Ma dell’himalaysmo “eroico” delle vie normali e dei suoi bla e contro-bla, per dirla con Rhett Butler, francamente me ne infischio. 

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