Il giudizio sospeso
Pochi giorni fa ho visto un film terribile e bellissimo, “Elephant”, di Gus Van Sant, vincitore a Cannes lo scorso anno. Racconta la storia di una tragedia allucinante – la strage in un liceo americano commessa da due studenti – storia che viene seguita nelle sue piccole vicende comuni di persone, nella sua apparente banalità, che qui è la banalità del male. La tecnica è una ripresa a volte soggettiva e comunque sempre ravvicinata delle persone, chi l’ha visto sa bene di cosa parlo. Il giudizio è sospeso, non c’è morale, ma solo racconto ipnotico di persone e situazioni.
Mi piacerebbe raccontare i fatti di questi giorni sull’Everest allo stesso modo, sospendendo tutti i giudizi. Non vorrei cercare ragioni o torti, comportamenti sbagliati – se ve ne sono stati – o giusti. Mi piacerebbe che tutti, per una volta, sospendessero i giudizi per guardare il tutto da un punto di osservazione neutro. Per la storia tragica di questi giorni – ad oggi cinque morti – vorrei una telecamera soggettiva o quasi che seguisse i momenti di tutti i giorni di queste persone che salgono e scendono sullo smisurato palcoscenico dell’Everest.
Proviamo per una volta ad abbandonare ogni luogo comune sull’alpinismo d’alta quota, gli aggettivi ed i sostantivi che, da quando esiste, lo definiscono: grandezza, follia, egoismo, meschinità, commerciale, competizione, velocità, sfida, conquista, fatica, pericolo. Proviamo a guardare alla semplicità dei fatti con la nostra telecamera soggettiva. Virtuale, immaginaria ma non per questo meno vera.
La telecamera segue tantissime persone, come sempre, che si affollano sui pendii della Montagna più alta del Mondo. Un alpinista sale l’Icefall, sbuffando, si ferma, si guarda intorno. Uno sherpa lo supera, veloce e carico, quasi correndo sulle scalette di alluminio. Una guida precede due clienti verso il campo 1, supera un crepaccio ed attende i due. Il primo cliente affronta la scala con l’occhio spalancato sull’abisso che si apre sotto di lui. Giornata magnifica, caldo torrido nella Valle del Silenzio.
Al campo base un cuoco prepara la colazione, due alpinisti siedono nella tenda mensa, mangiano muesli e bevono caffè nero. Al campo 2 un alpinista parte per il campo 3,
imbrago e ramponi calzati. Vento sulla cima del Lhotse. Sui pendii sotto il campo 3 arranca una fila di sette alpinisti, lenti, insicuri. Altri sherpa li incrociano scendendo al campo 2, sembrano volare verso il basso. Dal campo 3 partono tre giapponesi verso il Colle Sud; sbuffano mentre iniziano il lungo traverso da quota 7300 metri. Uno di loro guarda in basso il Western Cwm. Il sole si sposta verso il Nuptse, ripido e acuminato. Un alpinista spagnolo ascolta musica dal suo walkman seduto davanti alla sua tenda al campo base. I suoi compagni giocano a carte nella tenda mensa, pop corn e birra davanti a loro. Le ore scorrono. Il sole scende dietro l’orizzonte del Pumori e la temperatura s’inabissa con lui. Un’alpinista americana s’infila il duvet in piuma e scatta fotografie del tramonto. Un cuoco picchia su un coperchio per avvisare della cena. Al Colle sud la cerniera di una tendina si chiude sulle facce cotte di due alpinisti svizzeri. Uno di loro accende il fornellino ansimando, l’altro prepara maschera e regolatore dell’ossigeno. Due sherpa nella tenda a fianco parlano e ridono rumorosamente. Il vento soffia ancora, ma meno forte di prima. Bombole ovunque intorno e resti di tende, si fa buio.
Luci nelle tende al base. Cinque francesi nella tenda mensa parlano delle previsioni, non buone, dei prossimi due giorni: weather alert. Che vuol dire: fermi tutti, mi raccomando. Le otto di sera, gli alpinisti svizzeri iniziano a vestirsi, sbuffano e scambiano poche parole, la tensione si avverte, nera e densa. L’alpinista americana, al campo base, legge nella tenda mensa, i suoi compagni chiacchierano e bevono tè. I loro sherpa, nella tenda cucina, divorano enormi piatti di riso e dal.
Gli svizzeri escono dalla tenda al Colle sud verso le dieci, indossano ramponi e zaino, regolano l’ossigeno sui due litri al minuto e partono nel buio della notte limpida e poco ventosa. Altri si muovono intorno a loro. Al campo due, come al base, tutto è quieto e le luci iniziano a spegnersi nelle tende. Una fila iridescente si allunga sulla cresta tra ottomila e ottomilatrecento. Una guida e quattro sherpa salgono davanti ad alcuni tedeschi che avanzano piano, imbottiti di piuma e ossigeno. Giapponesi e coreani seguono. La notte è gelida, le stelle luminose e incredibilmente vicine; un tedesco vorrebbe scattare foto, ma la guida lo invita a proseguire. In basso tutto è buio e silenzio.
La notte avanza fredda e lenta come gli alpinisti, fino a quando una sottile linea più chiara si disegna in basso verso est. Il cielo si rischiara sempre più, il vento aumenta sensibilmente. La telecamera segue gli svizzeri che salgono i pendii della balconata, sono gli ultimi della fila. L’alba: tedeschi guida e sherpa sono già in vetta. Abbracci e foto incrociate, ma guanti subito addosso, il freddo è violento ed il vento aumenta. Gli svizzeri salgono verso l’Hillary step, lenti, impacciati. Uno dei due si ferma e traffica con l’ossigeno, qualcosa non va nella maschera. I tedeschi, assieme a giapponesi e coreani arrivati nel frattempo sulla cima, iniziano la discesa. Gli svizzeri devono aspettare il passaggio di tutti.
Al base un cuoco scalda l’acqua del tè nella tenda cucina spagnola. Nessuno si muove al campo 3, ancora in ombra. Gli svizzeri arrancano oltre l’Hillary step verso la vetta. Il vento che soffia da nord si è fatto molto forte, a nordest cominciano a vedersi nuvole che si spostano velocissime in direzione dell’Everest. Gli alpinisti giunti in vetta per primi, sono già sotto quota 8500 metri ed iniziano ad essere avvolti da veli di nubi, il vento giunge in raffiche violente. Qualcuno si attarda sulle corde fisse, stanco ed ansimante nonostante l’ossigeno. Uno sherpa, cerca di aiutare un cliente seduto nella neve.
Gli svizzeri iniziano a scendere, la visibilità è meno netta ed il vento rende difficile lo stare in piedi. Uno di loro continua a maneggiare la maschera. Al campo 4 le tende sono già nelle nuvole, il vento è un ruggito. Il gruppo formato da tedeschi, coreani e giapponesi scende lentissimo nella bufera. In alto, lo svizzero con problemi alla maschera continua a fermarsi, l’amico gli dice di scendere, non possono fermarsi ora. La visibilità è quasi nulla sotto l’Hillary step. Lui fa segno di si, ma resta fermo ad ansimare con la maschera a penzoloni, mentre l’amico risale ad aiutare.
Al base è nuvolo, non molto vento, scende qualche fiocco di neve. Un francese si lava i denti, uno sherpa pela patate. I giapponesi, in alto, sono passati davanti e scendono più veloci. I tedeschi si sono suddivisi in due gruppetti con due sherpa ciascuno, la guida è col secondo gruppo dove uno dei clienti fatica a camminare.
L’alpinista svizzero con la maschera difettosa è seduto nella neve poco sotto l’Hillary step; l’amico inginocchiato di fianco cerca di aggiustargli la maschera sul volto, l’altro muove appena le mani. Dobbiamo scendere, grida nel vento il primo.
I giapponesi sono al colle sud, si buttano nelle tende appena intraviste nella tormenta.
Il primo gruppetto di tedeschi è quasi al colle sud, gli altri barcollano centocinquanta metri più insu. Lo svizzero seduto nella neve non risponde più. L’amico è al suo fianco e cerca di rimetterlo in piedi. Il vento assordante copre ogni suono.
Niente e nessuno si muove più sopra il campo base, solo luce bianca e vento orizzontale.
Fine. Questa è una storia. Storia possibile del 1996, di questi giorni e di chissà quando ancora. Una storia che si ripete uguale a se stessa periodicamente. Niente di nuovo.
Gli alpinisti, professionisti o dilettanti che siano, continuano a salire le montagne himalayane e l’Everest, con quella ostinazione che sempre sottende i sogni più potenti. Questi non sono influenzati dal raggiungimento della cima; il sogno non è professionista nè dilettante. Il sogno è neutro e puro, rarefatto come l’ostinazione.
Il nostro corpo d’acqua, al novanta per cento,
è strapieno d’ossigeno,
la neve calpestata, che ci ha inzuppato i panni,
pure è zeppa di ossigeno
e le rocce sono tenute insieme
dal reticolo di atomi di ossigeno,
ma noi quassù testardi
lo cerchiamo dove meno ce n’è,
scarso nell’aria povera di peso.
E’ la poetica lucidità di uno scrittore come Erri De Luca, a regalarci la più bella descrizione dell’alpinismo d’alta quota che io abbia mai sentito. A cogliere l’essenza primaria di questo alpinismo: la caparbietà, l’ostinazione che supera ogni limite di razionalità e calcolo per farsi sublimazione di fatica, azione e, a volte, azzardo. Una dedizione fisica e psicologica che s’inizia molto prima e termina molto dopo la spedizione stessa, con uno straniamento acuto che richiede tempo prima di placarsi.
I morti di questi giorni, così come i salitori felici sono sognatori ostinati. Come quelli che hanno tentato, tentano e tenteranno ogni montagna di ottomila metri. Ognuno con la sua propria natura. Si sa, non è facile comprendere la complessità delle motivazioni che spingono uomini e donne ad affrontare salite lunghe e rischiose come quella dell’Everest. Ancora una volta cito il film Elephant, o meglio la parabola che sta alla base del titolo. Questo si riferisce ad un’antica parabola buddista che narra di alcuni uomini ciechi che esaminano un elefante: le orecchie, la coda, la proboscide, le zampe. Ognuno di loro è convinto di aver compreso la vera natura dell’animale basandosi sulla parte che sta esaminando, cioè che l’animale sia un serpente, un albero, una corda, un ventaglio od una lancia. Ma nessuno di loro vede l’intero, ne capisce l’intera natura. Utilizzando la parabola nel contesto di questo alpinismo, si potrebbe dire che molti, siano essi “del mestiere” o meno, sono spesso convinti di averne compreso la natura basandosi sulla valutazione di un solo aspetto, quasi sempre il più eclatante, ma senza accorgersi di quanto siano molteplici e complicati gli intrecci di pulsioni, sogni, coraggi e paure che muovono le persone su queste montagne. Quanti soloni ciechi, infatti, ad ogni tragedia, siamo obbligati ad ascoltare sui giornali, in televisione o sulla rete, è persino inutile ricordarlo.
Non sto recitando l’avvocato difensore delle spedizioni commerciali, degli scalatori improvvisati, dei manager che si fanno alpinisti per una stagione. Non condanno nemmeno. Semplicemente sospendo il giudizio per lasciare spazio alle storie, alle persone con i loro sogni.
Ho perso un amico pochi giorni fa all’Everest. Non credo potrei usare una parola diversa da “amico”, anche se era al tempo stesso un cliente. Un dilettante della montagna. Una persona nobile e bella, non giovane ma colma di progetti e sogni da ragazzo. Nils era uno delle centinaia di elefanti che tanti probabilmente non capiranno mai.