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Circus

Che Simone Moro sia un bravo alpinista, un uomo brillante, versatile ed un grande comunicatore è un fatto innegabile. A Simone mi lega una conoscenza ormai vecchia di anni, durante i quali ho sempre ammirato le doti che lo hanno portato ad essere uno dei pochi alpinisti - con Messner – ad essere conosciuto da un pubblico molto ampio, non costituito da soli specialisti od appassionati di alpinismo. Le sue imprese hanno sempre avuto una forte componente  comunicativa ed empatica che le ha rese “comprensibili” e capaci di suscitare emozioni; che fossero le dirette su radio 24, i collegamenti via computer dai campi base o le sue serate, Simone ha sempre sfruttato al meglio le possibilità offerte dai media per promuovere la propria attività e la propria persona. Così come è sempre stato molto bravo a fare cordata con alpinisti straordinariamente forti e capaci – Bukreev ed Urubko su tutti – senza i quali, forse, certi exploit sarebbero stati più difficili.
 Come molti personaggi che si affrancano da un‘ aurea mediocritas – di nuovo Messner docet – ha suscitato, e suscita, approvazione entusiastica ed altrettanta drastica avversione, ma non lascia sicuramente indifferenti.  Personalmente ho trovato tante sue idee e realizzazioni davvero straordinarie: basti pensare alle tre magnifiche prime invernali di Shisha Pangma, Makalu e Gasherbrum II. 
E’ proprio per questo che ora, nel leggere della sua partecipazione, anzi del suo supporto di logista e guida, all’ “impresa” del pedalatore estremo Vittorio Brumotti rimango parecchio interdetto.  Se, di nuovo, da una parte questa presenza di Simone fa parte della sua visione anche mediatica della montagna, non posso fare a meno di notare che questa volta Simone oltrepassa, volente o nolente, la soglia di una spettacolarizzazione fine a sé stessa e parecchio gigiona. Se la mediaticità delle sue precedenti spedizioni, infatti, era comunque strettamente legata a performance alpinistiche vere ed anzi estremamente impegnative e tecniche,  in questo caso ci troviamo di fronte a quello che non mi sembra eccessivo chiamare numero da circo – con rispetto per il circo che vive di artisti straordinari.  Ma come altro definire il tentativo di salire e/o scendere l’Icefall dell’Everest con una bicicletta e, peggio ancora, tentare il record di saltelli su una ruota in cima allo stesso ?  Si ha un bel da cercare di nobilitare la cosa con le difficoltà estreme dell’ambiente, con la preparazione e l’abilità tecnico-atletica  – innegabile – del Brumotti, con l’iperbole del guinness dei primati – ma quante centinaia di record idioti sono registrati sulla bibbia delle velleità inutili ?  
Purtroppo - questa è ovviamente opinione personale - tutta la cosa continua  ad apparirmi un ridicolo baraccone: venghino venghino siore e siori a veder il saltimbanco che zompetta sulla cima della Montagna più Alta del Mondo.  Continua a sembrare quel che è: un uso della montagna come fondale grandioso per le proprie vanità, che se appaiono spesso folli anche quando applicate al vero alpinismo, quello effettuato a piedi, con piccozza e ramponi, qui, amplificate da un approccio completamente scollato, spaesato e spaesante – la bici sul ghiaccio quasi verticale – risultano davvero incomprensibili e anzi decisamente irritanti. 
Simone sostiene, immagino, la sua posizione di professionista che semplicemente presta le sue competenze ad un’impresa sportiva in montagna (non “di” montagna); ma forse una riflessione un po’ più approfondita sui presupposti – e le ricadute personali e mediatiche - dell’ “impresa” avrebbe giovato.
Moro scrive che comunque le vie normali di salita all’Everest sono già, e da anni, percorsi “commerciali”. Vero, ma un po’ debole e sbrigativo. Perché è pur sempre altrettanto vero che gli uomini e le donne che hanno calpestato a migliaia i fianchi del Sagarmatha, lo hanno fatto finora nei limiti di un approccio “tradizionale”. Magari con gran variabilità in tema di numero di arti, di età o preparazione, di uso d’ossigeno o mezzi di discesa - sci - ma pur sempre affrontando la montagna con mezzi – almeno questo – strettamente, tradizionalmente legati ad essa. E non sempre “tradizionale” si traduce con vecchio o arretrato, così come non sempre “nuovo” vuol dire innovativo e apportatore di un qualche progresso, tecnico-pratico o morale. Nella tradizione si ritrova spesso un approccio meditato, rispettoso della storia, dei luoghi e delle persone, una visione più umile e coerente dell’andare.

Saltellare con un mezzo ridicolo – unfit, scriverebbero gli inglesi che di fair means se ne intendono abbastanza - sui suoi ghiacci per finire nel Guinnes dei Primati e su Striscia la notizia non sarà forse il peggiore degli affronti per la Dea Madre della Terra, ma non mi sembra nemmeno rispettoso, né della sua essenza fisica e sacrale né del suo valore universale di simbolo.

Né temo faccia onore ad un alpinista vero e di valore come Simone Moro. 

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