La foto
Certe giornate invernali qua in pianura, possono essere davvero brutte: grigie, fredde e piovose, con la mattina che sembra subito scivolare verso il crepuscolo. Giornate che tolgono la voglia di fare anche la più semplice delle attività, anche la più breve sgambata. E’ in queste giornate, allora, che si mette mano alle cose in sospeso, ai lavori sempre rimandati per fare altro.
Si prendono in mano cartoni pieni di vecchie riviste, documenti, depliant, oggetti, libri e foto, e si prova a buttare via qualcosa. Nel mio caso con scarsissimi risultati, avendo l’inestinguibile tendenza a conservare ogni cosa, soprattutto se si tratta dei ricordi di qualche viaggio.
E’ così che trovo quella foto, scattata nel lontano 1999 sulla soglia di un hotel di Islamabad. Siamo in sei, in una luce abbacinante, pronti a lasciare la capitale pakistana per dirigerci a nord, verso le montagne del Karakorum, verso il K2. Sei figure piene di aspettative, di sogni, di pensieri e “speranze di bere un vino buono per l’estate”, per dirla con Fossati.
Di quei sei, siamo rimasti in due. Solo in due. Gli altri andati avanti a scoprire cosa c’è o non c’è oltre il gran salto. Tutti volati via in montagna.
E mi viene in mente Hayden Kennedy e la sua storia, penso ai quattro volti mostrati sulla pagina di eveningsends.com, alle sue parole, scritte in quell’articolo per i suoi amici scomparsi. Penso che anche il suo volto si è aggiunto a quello dei compagni scomparsi in montagna, anche se la sua morte è resa, se possibile, ancora più tragica perchè scelta coscientemente per fermare un dolore intollerabile: la perdita della sua stessa compagna di vita e di avventure.
Le sue riflessioni in quell’articolo non forniscono risposte definitive, com’è naturale che sia per un tema così profondo che va ben oltre l’oggettività dei fatti e attinge sempre alle proprie personali esperienze e convinzioni, intellettuali, morali e spirituali. Le sue parole suggeriscono solamente una possibilità per leggere le esperienze in montagna - e raccontarle - oltre la superfice dell’”impresa”: un tentativo di renderle qualcosa di più profondo. Un modo per “riportare indietro ciò che è passato, perso o andato”. E, possibilmente, accettarlo.
Hayden era giovane, 27 anni, ed egli stesso nell’articolo, si diceva ancora in cerca di una via per gestire le luci e le ombre della sua vita di climber professionista. Una via che ha purtroppo perso definitivamente con la scomparsa della sua compagna.
Continuo a guardare la foto e ripenso a questi amici scomparsi. Anche le loro sono tutte storie di una passione inesauribile, troncate solo dalla fatalità. Mihai Cioroianu, rumeno, forte e appassionato, alla continua ricerca di fondi per le sue spedizioni, rimane sui pendii del K2 in quello stesso 1999. Ugur Uluocak, alpinista turco, colto e cocciuto, scompare sulle montagne degli Altai nel 2003. Jay Sieger, alaskano solitario, muore qualche anno dopo scendendo dal Makalu, suo primo ottomila. E infine Oskar Piazza, amico fraterno, se ne va sotto il terremoto nel suo amato Langtang.
Le amicizie che nascono in montagna, nelle condizioni difficili e rischiose di una salita, nel freddo di una tenda o nel calore secco di una pietraia d’alta quota, hanno una forza particolare, sono come incise dentro di noi a fuoco da quegli elementi così forti e restano intatte, a dispetto delle distanze e del tempo.
La foto. E’ stato difficile accettare la loro mancanza, non ricevere più le loro telefonate o i messaggi. Non cercarli per una nuova avventura. Per i tanti che non condividono la passione della montagna e dell’avventura nella natura più pura, può essere molto difficile capire: manca una spiegazione a questa ricerca spasmodica di vita – perchè di questo si tratta – così come manca un senso alla perdita di uomini e donne nel pieno della loro vita, compagni, fratelli, sorelle, padri. Per chi invece sa cosa significa vivere le emozioni di una salita in alta quota, della discesa ripida di un canale, di una traversata nel deserto o in una grande foresta, per tutti noi una chiave di lettura c’è.
Ma ecco, forse, pensandoci bene, si può trovare anche una chiave universale, un grimaldello che apra la mente: la condivisione ma forse anche solo la comprensione di una visione della vita, può aprire le porte non solo dell’accettazione, ma anche della compassione, intesa nel senso letterale latino di “soffrire insieme”- che è sentimento tipico anche della filosofia e della pratica buddhista. Non si tratta di pietà: è un sentimento orizzontale, una compassione nobile che partecipa del dolore altrui facendolo proprio e portando a un’unità profonda con l’altro. Un gesto che non chiede nulla in cambio. E attraverso questo canale, la comunione può diventare molto altro: può divenire condivisione non solo della sofferenza, ma anche dei momenti di felicità, degli attimi di pura vita. La compassione così intesa richiede sforzo e dedizione: abbandonarsi al dolore è paradossalmente più facile. Essa esige che si rimettano in gioco giudizi e pregiudizi, che ci si apra alla vita degli altri e ci si sforzi di comprenderla senza giudicarla. In ogni aspetto, anche in quelli più distanti dal proprio sentire.
I volti dei miei compagni assenti continuano a fissarmi sorridendo da quell’hotel lontano nel tempo e nello spazio. La nostalgia della loro presenza non è diminuita, nè lo farà mai.
Ma nemmeno si perderà il calore e la bellezza di quei lunghi giorni condivisi in montagna a cercare e condividere un senso diverso dal semplice sopravvivere la propria quotidianità, a cercare, in fondo, di lasciare un piccolo segno del proprio passaggio.